Quale dibattito riguardo ai morti di Mottarone?

Non ci sono molte domande da porsi, perché c’è una causa “impellente”, una forza “maggiore” che muove la mano dell’uomo che ha neutralizzato il sistema frenante, ed è quella economica che determina i comportamenti, a cascata, dei responsabili dell’impianto. Cosa centra il libero arbitrio? Da quando in qua l’individuo avrebbe la possibilità e la capacità di sottrarsi ad un rapporto in ambito lavorativo e agire secondo il proprio credo? Solo la smisurata fantasia di un Polito, che non sa dove sbattere la testa, può andare alla ricerca del « l’etica protestante e lo spirito del capitalismo ». C’è un’etica unica e vera del capitalismo e si chiama profitto; il quale profitto dirige l’azione dell’individuo e lo porta – come nel caso che stiamo esaminando – ad affidarsi al fato fino al punto da ipotizzare che « mai la corda tirante si spezzerà ». Non c’è cattiveria nel comportamento umano, ma stupidità subordinata in modo animalesco all’interesse primario legato al profitto in competizione con altri con lo stesso spirito “etico”…

Michele Castaldo, “sui morti di Mottarone”, 31 maggio 2021

Il blog Noi non abbiamo patria invita al dibattito a partire dall’articolo di Michele Castaldo sui tragici fatti relativi al crollo della funivia del Mottarone [compagno con cui questo blog amabilmente discute, litiga e si accapiglia, ma spesso trova “involontariamente” punti comuni di riflessioni “parallele”, e lui fa allo stesso modo nei confronti di questo blog stesso]. Articolo presente anche su Sinistra in Rete. Che c’è da dire? Che è ottimo.

Il punto dirimente della riflessione di Michele Castaldo sulla tragedia del Mottarone è circa il modo dei rapporti di produzione capitalistici ed il suo riflesso ideologico capovolto circa la possibilità dell’esercizio del libero arbitrio da parte dell’uomo capitalistico (che include padroni e proletari entrambi soggiogati alle leggi impersonali della accumulazione del valore). C’è poco da dire, la faccenda è abbastanza profonda: fin dalla notte dei tempi in cui mentre si giustificava la causa delle cose come immutabile e determinata da un dio esterno, esso veniva qualificato come divinità donatrice del libero arbitrio umano, i quali sarebbero stati liberi di scegliere tra il male ed il bene, dunque nascondendo così agli uomini sottoposti gerarchicamente ai vecchi rapporti di produzione la vera causa delle cose delle loro condizioni materiali di sfruttamento di una parte degli uomini contro un’altra parte. Lo sviluppo originario del capitalismo ha perfezionato questo aspetto della ideologia, ne ha fatta una illuminazione fin dalle sue prime decisive manifestazioni proprio per difendere se stesso, ossia offuscare l’immutabilità delle sue leggi impersonali delle necessità di sviluppare l’accumulazione capitalistica, le quali, però, non possono evitare di far emergere profonde contraddizioni all’interno della sua struttura economica e all’interno dei suoi rapporti materiali mercificati di ogni aspetto della riproduzione della vita sociale.

È evidente oggi che la crisi profonda dei rapporti di produzione e delle relazioni capitalistiche tra gli uomini scricchiolano, e con essi tutta l’impalcatura ideologica che discende dall’illuminismo viene frustrata, anche essa é messa in crisi.

L’iconoclastia della rivolta di George Floyd interpretata dai proletari neri, latini, nativi e bianchi nei confronti delle immagini di Cristoforo Colombo ne è un esempio ed è stato visto dai difensori dello stato di cose presenti un “sacrilegio alla storia”, perché oltraggiando l’esploratore genovese si oltraggiava la potenzialità dell’uomo di esercitare coraggiosamente il proprio libero arbitrio e sfidare il mare, fare la storia attraverso queste virtù, su cui tutta la ragion d’essere capitalista dell’illuminismo ha fondato la sua impalcatura ideologica di mistificazione delle ragioni dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

«L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a sé stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo.» – Immanuel Kant, 1784.

Il ragionamento di una “società etica”, di un “capitalismo etico” viene sempre più riproposto nella disperazione di chi se ne fa interprete, mentre le fondamenta dell’illuminismo crollano per effetto delle stesse necessità storiche che lo hanno prodotto. Di fronte ai fatti inequivocabili della sussunzione reale della vita al modo di produzione capitalistico, nella paura, da destra a sinistra, tra l’intellighenzia borghese che interpreta la necessità di salvare lo stato di cose presenti, ma anche quella di chi si autodefinisce di sinistra ricorre a delle soluzioni etiche. Tutti di fronte alla tendenza sovvertitrice del crollo delle relazioni capitalistiche ripropongono atteggiamenti, azioni e pensieri anti storici: capitalismo senza razzismo, uno stato etico senza i padroni corrotti ed assetati di profitto, uno stato laico comune per ebrei e arabi, un sistema economico in libero mercato e libera concorrenza nel rispetto laico della natura, un capitalismo ed un mercato che rispetti le diversità senza esercitare l’oppressione di genere. Quando anche a sinistra si tratta di indicare prospettive e soluzioni di fronte alla crisi si rimane imprigionati nell’illuminismo di un uomo pensante e mosso dal libero arbitrio, che il movimento storico operaio riteneva fosse il partito, ma quello “vero” e “puro”, o la sua forma ancestrale delle necessarie avanguardie pre esistenti, che avrebbe potuto predeterminare ed orientare il corso degli eventi, mutarne la direzione, orientare le masse per poi trovarsi infine più arretrate rispetto al moto spontaneo delle masse stesse che lo stesso capitalismo determina nella sua crisi.

Onore a Lenin che nell’Aprile 1917 seppe riflettere la traiettoria sovra determinata delle masse proletarie e di quelle povere e poverissime contadine che erano più avanti delle “avanguardie di classe” presenti nei Soviet di San Pietroburgo e Mosca e dello stesso nocciolo di avanguardia di ferro” del partito bolscevico e di tutto il suo apparato dirigente avvinghiati fin lì alla coda dello stato di cose presenti, tra le necessità delle bocche operaie e quella della produzione cui pretendere ai padroni una comune gestione. Seppe farlo, potè farlo, proprio in virtù di una auto attività rivoluzionaria che veniva sprigionata dalle contraddizioni del capitalismo e dal suo macello imperialista.

Si dirà allora, che ruolo abbiamo “noi“? Questa è una parte del dibattito ancora non scritta, tra il noi impersonale spogliato dalla facoltà del libero arbitrio, in quanto connessione impersonale di una collettività che avversa questi rapporti sociali capitalistici finalizzati alla accumulazione del valore ed alla moderna schiavitù dell’uomo sull’uomo, ed il noi che potrebbe scegliere in virtù dell’esercizio dell’intelligenza e delle giuste regole. Ma una cosa è certa, rincorrere le responsabilità personali dei singoli padroni, o della loro egoista sete personale di profitto, per denunciarle poi a chi (allo stato? o per via forza della ragion pratica insegnare ai proletari ad insorgere e di uscire dallo stato di minorità cui il capitalismo li relega?), come le cause della strage di Mottarone, ci porta a guardare il dito e non alla luna.


Sui morti di Mottarone – di Michele Castaldo (31 maggio 2021)

Ci risiamo con l’errore umano, l’incuria dell’ultima ruota del carro, la ricerca del capro espiatorio e la responsabilità personale dell’accaduto. Ovvero tutto poteva essere evitato “se solo” ecc. ecc..

   Siamo perciò ancora una volta alla miseria umana, alla cronaca di qualche giorno, al rimbalzo di responsabilità, alle “indagini”, alle inchieste, o – anche, perché no? – all’istituzione di una commissione d’inchiesta, visto che non si capisce bene a chi apparteneva la responsabilità della gestione politica oltre che economica della funivia, il ruolo delle regioni, dei comuni, e così via all’infinito, fino alla prossima tragedia o alla prossima strage. Tanto, una in più una in meno cosa si vuole che conti, basta che passino alcuni giorni e tutto si raffredda, tutto si dimentica, e la giostra continuerà a girare grossomodo come prima.

   Ma da un po’ di tempo a questa parte alcune tragedie e disastri inducono alla riflessione persino i grandi pensatori e propagandisti dell’unico sistema sociale possibile, il capitalismo. Si avverte nell’aria una sorta di impotenza rispetto a quanto avviene. Ci sbagliamo? Può darsi, ma a leggere certi editoriali come quello di Antonio Polito sul Corriere della sera di giovedì 27 maggio, cioè pochi giorni dopo l’accaduto, c’è la conferma: c’è smarrimento.

   Le cose sono molto più complicate di come le si vorrebbe presentare e vanno inquadrate nella dinamica temporale per capire, cioè nella ricerca delle la cause delle cose più che la ricerca del responsabile, come sono portati a fare i grandi commentatori, che si ergono a professoroni di diritto e di etica per relegare nell’angolo buio dell’errore dell’individuo e salvare così un sistema di valori dell’attuale modo di produzione. 

   Qual è la preoccupazione di fondo? La spiega molto bene Antonio Polito nel richiamato articolo: « i responsabili dell’errore che ha causato l’incidente della funivia al Mottarone produrranno un danno incalcolabile, non tanto per i 14 morti, ma perché si colpisce l’immagine di un servizio del turismo che è il fiore all’occhiello dell’Italia in un periodo come quello attuale, di riapertura, dopo oltre un anno di perdite economiche causate dalla chiusura per la pandemia da Covid-19 ».

   Ci sia consentito di consigliare la lettura degli editoriali della grande stampa, perché è una vera e propria scuola di cinismo politico, culturale e sociale a difesa di un sistema che comincia a scricchiolare. Seguiamo il ragionamento del signor Polito: « La scelta dei gestori di quell’impianto brucerà il profitto cumulato degli altri 1.744 che ci sono in Italia », la famosa etica capitalistica cui l’autore si richiama. Perché « Il prodotto che noi vendiamo », dice la presidente dell’associazione dei gestori, « è la sicurezza, non siamo un’autostrada dove la gente non può fare a meno di viaggiare, nessuno ha bisogno di prendere una funivia se non si sente sicuro al cento per cento ». E Polito aggiunge: « Questa sicurezza è stata fatta a pezzi. Un’intera industria è stata sabotata ». E l’etica dov’è finita, l’etica? 

   Il povero editorialista, si il povero editorialista, non sa dove sbattere la testa (e come lui tanti altri) e sdegnosamente scrive: « Ma trascuriamo il fattore umano. Perché dietro ogni norma, dietro ogni tecnica, c’è un uomo che compie scelte in base al suo libero arbitrio; e noi dipendiamo da quello, dalla sua scala di valori, dal rispetto per gli altri che lo anima, dal suo senso del dovere » (il corsivo è nostro).

   Sia detto senza cattiveria alcuna, ma un uomo del genere andrebbe messo in pensione perché incapace di intendere e di volere. Com’è possibile scrivere simili amenità? Libero arbitrio nelle relazioni produttive e sociali nell’epoca moderna? Ma Polito vive su un altro mondo tutto a sua immagine e somiglianza. E perché mai il Corriere della sera lo paga? Per fargli fare quello che a lui piace e conviene?

   Torniamo allora con i piedi per terra e cerchiamo di ragionare per aiutare a capire chi è disposto a capire e si interroga sul perché accadono certi fatti, che si potrebbero “tranquillamente“ evitare partendo dai fatti e non dai nostri desideri.

    La veduta durante la salita da Stresa a Mottarone è da mozzafiato. Ma l’impianto è uno dei 1.744 esistenti in Italia e dopo un anno e passa di chiusura c’è l’ansia di riaprire perché ogni giorno potrebbe incassare circa 12.000 euro. Sicché se non funziona questo impianto, chi ha desiderio di una gita di un certo tipo si sarebbe orientato su un altro impianto. Dunque c’è una necessità “impellente” anche perché c’è un’offerta di altri “affamati” impianti concorrenti.

   Viene però rilevato un rumore strano al sistema frenante, bisognerebbe perciò bloccare una cabina e procedere alla sua sistemazione; il che richiederebbe tempo e perdita di incasso. C’è un breve consulto tra i massimi responsabili che gestiscono l’impianto e si “conviene” di neutralizzare il sistema frenante, tanto  « la corda tirante non si spezzerà mai ». E ci si affida al fato, e la corda tirante si spezza.    

   Non sarebbe accaduta la disgrazia SE la cabina avesse avuto in funzione il sistema frenante che l’avrebbe bloccata piuttosto che farla scorrere sul cavo fisso a velocità aerea, sobbalzare sul pilastro e cadere nel vuoto. E il sistema frenante, cioè il “forchettone” che si sarebbe dovuto chiudere era stato neutralizzato su indicazione dei massimi responsabili dell’impianto, lo ha dichiarato “candidamente” il collaboratore storico del gestore. 

   Non ci sono molte domande da porsi, perché c’è una causa “impellente”, una forza “maggiore” che muove la mano dell’uomo che ha neutralizzato il sistema frenante, ed è quella economica che determina i comportamenti, a cascata, dei responsabili dell’impianto. Cosa centra il libero arbitrio? Da quando in qua l’individuo avrebbe la possibilità e la capacità di sottrarsi ad un rapporto in ambito lavorativo e agire secondo il proprio credo? Solo la smisurata fantasia di un Polito, che non sa dove sbattere la testa, può andare alla ricerca del « l’etica protestante e lo spirito del capitalismo ». C’è un’etica unica e vera del capitalismo e si chiama profitto; il quale profitto dirige l’azione dell’individuo e lo porta – come nel caso che stiamo esaminando – ad affidarsi al fato fino al punto da ipotizzare che « mai la corda tirante si spezzerà ». Non c’è cattiveria nel comportamento umano, ma stupidità subordinata in modo animalesco all’interesse primario legato al profitto in competizione con altri con lo stesso spirito “etico”.

   Sarebbe economicismo questo modo di ragionare? Beh, si tratta di una critica ideologica fatta per non affrontare la questione nella sua complessità e volersi illudere, come siamo abituati a fare da alcuni secoli in Occidente, che l’uomo sia il deus ex machina che domina tutte le altre specie della natura, sia il padrone del mondo e come risultato attribuisce all’individuo la capacità del libero arbitrio fino al punto da affidarsi al fato

Capitalismo e libero arbitrio

   Ci tocca fare a questo punto una digressione, perché la questione è molto più complicata di quanto si vuole far credere, in modo particolare per un certo modo di pensare di certi ambienti di “alta cultura” della sinistra che, personalizzando il capitalismo, rappresentano l’altra faccia della stessa medaglia di Polito, ovvero che una persona diversa nello stesso posto e ruolo potrebbe determinare un diverso risultato.

   Sgombriamo perciò il campo dagli equivoci: è la persona che viene scelta dal ruolo e non viceversa. E qui ci pioverà addosso la critica di meccanicismo, ma abbiamo motivi da vendere per dimostrare che il vero meccanicismo è esattamente quello di chi attribuisce all’individuo il libero arbitrio nei ruoli impersonali dei rapporti produttivi della moderna società capitalistica. Vogliamo allora assolvere i responsabili dell’incidente del Mottarone o di tante immense tragedie? No, semplicemente si vuole fissare un principio teorico dei ruoli, dovuti ai meccanismi impersonali del modo di produzione capitalistico cui l’individuo viene totalmente subordinato. 

   Per meglio intendere il problema, vogliamo operare una “forzatura” e diciamo che le persone fisiche che stavano nella cabina e che sono morte, in ruoli diversi avrebbero potuto svolgere la parte dei carnefici, visto che non si trattava di lavoratori di colore alla mercé di piccoli capitalisti senza scrupoli. Conosciamo più o meno cosa può costare un fine settimana partendo da Israele, arrivare a Milano, raggiungere Stresa, prendere la funivia e alloggiare al Mottarone. Vittime, certo, ma in ruoli diversi, mentre in quanto difensori dello e nello Stato di Israele, assolvevano a quello di carnefici passivi nei confronti dei palestinesi della striscia di Gaza e degli arabo-israeliani, in quanto parte di un tutt’uno dell’attuale modo di produzione, che sono passati dall’essere vittime della diaspora al divenir carnefici attraverso lo Stato di Israele per finire vittime delle stesse leggi di mercato che difendono in Medioriente con l’occupazione della Palestina. Non si vuole criminalizzare alcunché, ma si cerca di guardare i fatti per come si presentano realmente e senza la finzione dell’ideologia né da una parte, i difensori dell’attuale modo di produzione, né da chi è incapace di vedere il monismo del capitalismo a questo stadio di sviluppo dell’accumulazione e sogna un nuovo soggetto rivoluzionario di classe.

  Spostiamo ancora più in avanti la questione citando la corretta polemica che fa  Andrea Zhok  nelle note pubblicate su questo stesso sito quando scrive: « Il sistema motivazionale capitalista spinge nella direzione di comportamenti antisociali ». Il che è vero e tutti gli argomenti a suo sostegno sono validi, ma il capitalismo non è piovuto da un altro pianeta e noi non possiamo negare l’antico assunto dell’homo homini lupus per non affrontare di petto la questione, altrimenti serviamo su un piatto d’argento a Polito e ai politiani tutte le ragioni possibili e immaginabili per stroncare sul nascere ogni nostra legittima critica a un sistema sociale dove l’uomo si è comportato per il passato in modo feroce all’interno della sua stessa specie, basta solo ricordare la schiavitù e la tratta dei neri. E oggi, proprio perché l’uomo è ancora subordinato al suo istinto, tutto al più si affida al fato, come in molte “disgrazie” dovute alle leggi dell’attuale modo di produzione ovvero privo di libero arbitrio, ma con risultati altrettanto disastrosi.

   A questo punto Andrea Zhok si domanda: « Quali conseguenze trarne è altra questione, che richiederebbe un approfondimento qui impossibile, tuttavia questo fatto sociale resta un punto che non bisogna permettere a nessuno di rimuovere ».

   Ma non possiamo rimandare sine die la questione qui posta. Condanniamo senza attenuanti le motivazioni di Polito e di quanti difendono il modo di produzione capitalistico in quanto l’unico mondo possibile “nonostante” i disastri compiuti da chi non si veste d’autorità dovuta al libero arbitrio e non agisce in modo etico corretto. Dobbiamo sapere però che il permanere dell’attuale modo di produzione ha subordinato e subordinerà sempre di più l’individuo alle sue leggi. Questo è vero non solo oggi, ma lo fu anche quando all’indomani della straordinaria rivoluzione del 1917 in Russia Lenin e i bolscevichi ipotizzavano un equilibrato sviluppo della comunità agricola in armonia con uno sviluppo industriale, mentre i contadini, anche quelli poveri e poverissimi, rincorrevano l’arricchimento. 

   D’accordo, si trattava di una fase di ascesa del modo di produzione capitalistico, ma tanto bastò per bruciare il nostro idealismo sul comunismo, ovvero la possibilità di dirigere in modo diverso lo sviluppo capitalistico. Una valutazione teorica e politica che abbiamo pagato a caro prezzo perché la forza del capitale si è imposta in tutto il mondo e ci ha dimostrato che si tratta di leggi del tutto naturali, come certi eventi atmosferici, tipo il vento. Non era possibile frenare il vento in corsa e non fu frenato. 

   Oggi siamo in una fase dove l’attuale modo di produzione, rincorrendo quelle sue stesse leggi si sta avviando velocemente verso la catastrofe e noi non possiamo pensare che « senza un’alternativa coerente e credibile al capitalismo, il realismo capitalista continuerà a dominare l’inconscio politico-economico » come scriveva Mark Fischer in Realismo capitalista, alcuni anni fa, perché in natura non esiste un movimento infinito, tutto è finito e il modo di produzione capitalistico è un movimento storico che è sorto, si è sviluppato e si avvia oggi, non ieri, verso la sua fine. 

   Questo lo percepiscono i grandi poteri che hanno più strumenti di noi a disposizione e il povero Polito rappresenta la disperazione del mondo borghese che di fronte alla catastrofe si richiama al passato, all’etica protestante del capitalismo proprio perché intuisce che certi avvenimenti sono espressione dello scricchiolio dell’insieme del modo di produzione.

   A noi spetta il compito non della ricerca dell’alternativa di modelli da mostrare, perché non ce ne sono, lo abbiamo sperimentato per il passato e siamo stati sconfitti perché stavamo sullo stesso terreno della borghesia, ovvero pensavamo di competere con essa modellando il movimento come classe alternativa, scambiando in questo modo il prodotto – le classi sociali –  col produttore, il modo di produzione, o altrimenti detto col proporre di disarcionare una classe, la borghesia,  dal potere politico e sostituirla con un’altra, il proletariato, con valori taumaturgici. Così non è stato, ne prendiamo atto e guardiamo avanti, alla possibilità che dalla catastrofe del modo di produzione capitalistico si possa ergere l’araba fenice di nuovi rapporti fra gli uomini con i mezzi di produzione. 

   Ecco la differenza reale, perché storicamente determinata, tra la visione del materialista nei confronti di chi va alla ricerca dell’etica e del libero arbitrio e sbatte con la testa contro il muro.

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