La questione palestinese oggi e la crisi della sinistra occidentale – presentazione dell’articolo di Abdaljawad Omar “la questione di Hamas e la sinistra”

"La sinistra deve affrontare questo fatto fondamentale. Non si può rivendicare solidarietà con la Palestina e respingere, trascurare o escludere Hamas."
ABDALJAWAD OMAR  31 maggio 2024  – da Mondoweiss.net

Presentiamo un articolo di Abdaljawad Omar, giovane dottorando e docente part-time presso il Dipartimento di Filosofia e studi culturali dell’Università di Birzeit in Cisgiordania, pubblicato da Mondoweiss il 31 maggio scorso.

 Non ci nascondiamo che l’argomento chiama in causa l’intero movimento storico della sinistra occidentale in quanto riflesso agente delle necessità di una classe sociale – il proletariato – determinato dalle leggi impersonali dell’accumulazione. Il giovane intellettuale palestinese di West Bank prende spunto da un acceso dibattito che sta avvenendo in maniera sempre più articolata proprio nei paesi dove la mobilitazione a sostegno della Palestina ha dimensioni di massa. Intellettuali della sinistra e organizzazioni delle sinistra, chi più e chi meno, rimproverano alle mobilitazioni in occidente di sostenere sì giustamente la resistenza palestinese ma di fatto celebrando il 7 ottobre e l’azione politica di un movimento “socialmente regressivo”, Hamas. In sostanza abbiamo a che fare con una variegata impostazione della sinistra occidentale le cui posizioni possono essere sintetizzate con “la resistenza palestinese, senza se e senza… Hamas”.

   Non ci nascondiamo che in questo articolo Omar, così come quelli cui egli riferisce di Jodi Dean e di Andreas Malm e che hanno dato scandalo tra componenti della sinistra radicale occidentale il tema non è limitato a una impostazione politica pratica dell’oggi palestinese, ma ci costringe a prendere il toro per le corna, ossia la relazione della produzione del valore e del colonialismo degli occidentali che ha determinato il movimento di una classe sociale e della sua rappresentazione politica all’interno del moto determinato della storia.

Se giustamente Omar ribadisce che « la principale linea di divisione tra le fazioni politiche palestinesi non riguarda lo scisma tra laicismo e islamismo, la lotta su programmi socio-economici divergenti, o i meriti di una particolare tattica al servizio della liberazione. Tutte queste sono questioni importanti di per sé, ma ciò che in realtà sta causando una spaccatura nell’arena politica palestinese è il divario tra una politica di pura sfida e una politica di accomodamento, cooperazione e collaborazione. In definitiva, la ricerca donchisciottesca della sinistra occidentale di un’alternativa laica e progressista a Hamas trascura un fatto semplice: in questo particolare frangente storico, le forze politiche che ancora si aggrappano e conducono un’agenda di resistenza non appartengono alla sinistra laica. »

Allora diviene necessario domandarsi perché le forze della sinistra laiche e socialiste in Palestina si sono adattate alla collaborazione con Israele? E perché, come correttamente evidenzia Omar, la sinistra occidentale nasconda dietro la critica ideologica nei confronti di Hamas (un movimento politico “regressivo”) il punto dirimente che in quanto movimento è costretto a rappresentare la necessità della resistenza armata contro Israele e l’insieme dell’Occidente che la stessa sinistra occidentale di fatto vede come fumo negli occhi?

Il dato materialistico evidente è che il capitalismo è un movimento storico che ha determinato le classi sociali, che sono oggetti e non soggetti indipendenti dalla forza materiale del processo unitario dell’evoluzione dei rapporti degli uomini con i mezzi della produzione e la natura. Una forza impersonale che legando il salario sociale all’accumulazione capitalistica non poteva determinarne la conflittualità immanente all’interno della relazione lavoro salariato e capitale se non all’ombra del “progresso” del valore che attraverso il colonialismo degli europei si andava a sostanziare e ad affermare. La domanda è ma “regressiva” in relazione a che cosa?

Per abbozzare una risposta e capirne il processo storico determinato serve recuperare una citazione di Marx  da comprendere, aggredire e contestare teoricamente:

«…Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell’industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale. Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza. »

   Appare chiaro, che così come in questo passaggio del Manifesto del Partito Comunista del 1848, il carattere “regressivo” di Hamas è di fatto contrapposto alla modernità che il colonialismo di Israele ha realizzato nell’area Medio Orientale, così come viene contrapposto al “moderno proletariato israeliano” che lo stesso imperialismo avrebbe costituito. Un proletariato che di fatto vive sulla pelle dei palestinesi sottoposti per gli interessi generali dell’Occidente alla pulizia etnica e ora alla soluzione finale della stessa tramite genocidio. Quello di cui non ci si avvede è che il mondo è una catena monista e unitaria, per cui i palestinesi attraverso la loro resistenza armata perseguono la necessità di percorrere quella stessa strada obbligata che le società europee e occidentali intrapresero sotto la spinta di condizioni storiche e materiali favorevoli che arrestarono lo sviluppo degli altri popoli costringendoli a un rapporto di dominazione. Dunque nella resistenza armata vive un moto necessario “progressivo” indipendentemente dal quadro materiale delle sue possibilità, mentre le sinistre laiche e socialiste degli arabi, al seguito degli Europei si adattano e si adeguano al momento di crisi attuale dell’imperialismo occidentale non potendo far altro che servire il risultato del suo progresso. La professoressa Jodi Dean, nel suo articolo “la Palestina parla a tutti” e che l’autore che pubblichiamo riprende, tira così le somme: « …La lotta per la liberazione della Palestina oggi è guidata dal Movimento di resistenza islamica – Hamas. Hamas è sostenuto da tutta la sinistra organizzata palestinese. Ci si sarebbe aspettati che la sinistra del nucleo imperiale seguisse la leadership della sinistra palestinese nel sostenere Hamas. Il più delle volte, però, gli intellettuali di sinistra fanno eco alle condanne che gli Stati imperialisti pongono come condizione per parlare di Palestina. Così facendo, si schierano contro la rivoluzione palestinese, dando un volto progressista alla repressione del progetto politico palestinese e tradendo le aspirazioni antimperialiste di una generazione precedente… » [Jodie Dean – La Palestina parla per tutti].

   In sostanza per difendere le condizioni materiali del conflitto salario e profitto, la sinistra occidentale e occidentalista non può che adattarsi alle condizioni materiali concesse dal rapporto colonialista e trascinata difenderne l’assetto storico determinato, che nel caso specifico significa rinunciare alla resistenza armata per acconciarsi alle necessità del moderno proletariato israeliano e occidentale.    E’ tempo di rifare i conti con la storia! Marx ed Engels, che il caso li costrinse a muoversi in Inghilterra, in una società dinamica e avanzata, quale effetto di una rapina precedente, dunque già direttamente “contaminata” dalla schiavitù e dal colonialismo, presero atto che la storia avesse dato torto alla loro tesi, circa le classi sociali generatrici della storia, e dato ragione a un moto storico impersonale che genera le classi. Ma quelle stesse condizioni materiali non diedero la possibilità di farlo fino in fondo dappertutto, ma solo di gettare delle preziosissime premesse. Benché la crisi generale di un modo di produzione sta decretando la fine di Israele come strumento di dominio dell’Occidente sulle risorse vitali del Medio Oriente, la resistenza palestinese rimane costretta a rincorrere la storia nell’impossibilità di realizzare lo sviluppo dei mezzi di produzione, una comunità e un mercato nazionale in emulazione competitiva con l’occidente capitalista. La storia non si ripete mai uguale e le necessità materiali delle masse non si ripropongono mai allo stesso modo nel tempo. Proprio per questo è idealistico voler assegnare – da parte della sinistra occidentale – alle stesse masse altre agende alternative, prescindendo dal dato materiale che esse sono costrette ad affrontare, cioè il colonialismo di Israele, ritenendo di poter anticipare i fattori materiali che non sono prevedibili e che si appaleseranno mutevoli con lo sbriciolamento della catena unitaria dell’insieme delle relazioni sociali generali determinate dal rapporto degli uomini con i mezzi della produzione del valore, consolidatisi lungo 500 anni di colonialismo e di sfruttamento imperialista capitalista. Se la Palestina parla a tutti, lo è perché il caso della storia gli ha trasferito il riflesso di dare voce all’umanità che lotta per il progresso sociale e la giustizia universale delle donne, degli uomini e della natura: il caso che si dipana è la crisi sistemica del modo di produzione capitalista per cui è impossibile uno sviluppo ulteriore. Dietro l’inedita comunione di intenti, che unisce l’attuale resistenza palestinese e le mobilitazioni che la sostengono, emerge molto più di uno spettro che non fa dormire gli establishment del moto, in modo particolare in Occidente.

ALGAMICA – Alessio Galluppi, Michele Castaldo


La questione di Hamas e la sinistra

Recentemente sono emersi una serie di articoli che criticano la sinistra occidentale per aver “celebrato” Hamas. La maggior parte di queste critiche affermano che ridurre il sostegno alla resistenza palestinese per sostenere Hamas è un disservizio per i palestinesi perché i palestinesi rappresentano una molteplicità di voci con diverse disposizioni politiche. Invece, questi argomenti invitano la sinistra occidentale a fare i conti con la complessità e la diversità della politica palestinese. 

L’articolo di Bashir Abu Menneh su Jacobin , “ La resistenza palestinese non è un monolite ”, rimprovera ciò che egli sostiene sia la celebrazione da parte della sinistra di un movimento “socialmente regressivo” come Hamas in un articolo che sembra più una critica nascosta alla stessa resistenza armata che di Hamas. Matan Kaminer ha scritto una risposta a un articolo di Andreas Malm , entrambi pubblicati sul blog Verso, affermando che il “movimento di solidarietà globale deve impegnarsi con la diversità della politica palestinese”, in cui contesta le forze “antisistemiche” come Hamas che non hanno un’agenda di sinistra. Sulla Boston Review , Ayça Çubukçu ha risposto all’articolo di Jodi Dean, ” La Palestina parla per tutti “, a causa del suggerimento di Dean secondo cui il movimento di solidarietà globale dovrebbe affiancare la sinistra organizzata in Palestina a sostegno dell’attuale leadership di Hamas per la lotta per la liberazione.

Naturalmente, è imperativo prestare attenzione alla politica palestinese, alla sua storia, alle sue attuali condizioni e molteplicità. In effetti, nonostante il numero relativamente piccolo di palestinesi, e nonostante il fatto che la Palestina tra il fiume e il mare sia una piccola area geografica piena di terreni altamente contesi, si possono trovare una miriade di palestinesi che fanno eco a qualsiasi numero di fantasie o ideologie sul conflitto – compresi i palestinesi che affermano prontamente l’ideologia sionista.

Ma, stranamente, questo è ciò che i critici occidentali di sinistra di Hamas sbagliano. Non riescono a capire che la diversità nella società e nella politica palestinese si traduce anche in atteggiamenti divergenti nei confronti della resistenza al colonialismo. Sebbene richiedano una comprensione articolata della politica palestinese, tale sfumatura non si estende alla comprensione delle dinamiche e delle forze che motivano e allo stesso tempo rifuggono (o si oppongono attivamente) alla resistenza anticoloniale.  Questa ignoranza della politica palestinese è quasi intenzionale. Nutre una segreta ostilità verso la resistenza – soprattutto contro la resistenza armata – ma afferma di opporsi ad Hamas su basi completamente diverse, forse ideologiche. Tuttavia, per comprendere veramente le dinamiche intra-palestinesi e svelare il “monolite”, dobbiamo innanzitutto capire come le forze politiche palestinesi si sono evolute rispetto all’idea stessa di resistenza.

Geografia frammentata, politica frammentata.

I palestinesi sono soggetti a varie divisioni meticolosamente predisposte da Israele. In effetti, sarebbe molto sorprendente se i palestinesi fossero unificati quando le loro vite quotidiane sono così radicalmente diverse – dispersi in tutto il mondo e soggetti a varie governance e modalità di controllo israeliano. Queste divisioni non sono solo geografiche ma comportano anche diversi livelli di privilegio ed esclusione imposti dallo stato coloniale. Parlo di Gaza, della Cisgiordania, di Gerusalemme, dei territori del 1948 e della diaspora. 

Inoltre, questa frammentazione radicale ha portato molti palestinesi a iniziare a mettere in discussione il concetto stesso di unità come popolo, chiedendosi se la discrepanza nella capacità dei palestinesi di resistere sia un segno del peso delle divisioni geografiche e delle varie governance coloniali dopo 75 anni.  La guerra genocida a Gaza ha messo in luce il semplice fatto che i palestinesi nelle loro diverse località – a parte Gaza – sono stati incapaci di accumulare potere, ideare nuove tattiche, forgiare nuove organizzazioni o costruire un nuovo edificio intellettuale e materiale per affrontare la sfida che il colonialismo ha imposto al popolo palestinese ovunque. Niente chiarisce questo fallimento più della paura paralizzante che ha attanagliato la società palestinese fuori Gaza e fuori da alcune delle articolazioni più avanzate della lotta e dalle nuove modalità di resistenza emerse negli ultimi dieci anni, compreso il primato di tattiche come atti di resistenza atomizzata in Cisgiordania e nella Palestina del ’48 e la proliferazione di zone di autodifesa armata nel nord della Cisgiordania.

Questa molteplicità non è semplicemente una espressione delle variegate ideologie politiche tra i palestinesi che cadono sotto diverse modalità di controllo strutturale. Piuttosto, irrompe nel tessuto stesso della psiche individuale palestinese. Si svolge un intenso dialogo interno in cui i palestinesi sono divisi tra la potenzialità radicale della resistenza e il loro terrore viscerale nei confronti dell’implacabile colosso militare israeliano. Consideriamo il paradosso tra il desiderio di liberazione e la paura tormentosa che qualsiasi disturbo della vita quotidiana – anche causato dalla resistenza – possa svelare la fragile apparenza di normalità. Questo è il vero luogo della lotta ideologica, non solo nella sfera pubblica ma a livello individuale, dove la sublime possibilità della libertà si confronta con la realtà traumatica del potenziale annientamento da parte di una macchina militare superiore. Ciascuna forza, con le proprie richieste, spinge i palestinesi verso una serie di scelte esistenziali: rivoluzione o rassegnazione, emigrazione o fermezza, cancellazione simbolica o piena affermazione dell’identità attraverso atti di sacrificio. Questo silenzioso dialogo interno si manifesta in diverse articolazioni politiche – nell’oscillazione tra la posizione dell’intellettuale e martire Bassel Al-Araj, che dichiarò che “la resistenza ha sempre efficacia nel tempo”, e la rassegnazione più cinica implicita in posizioni come quelle di Mahmoud Abbas, che proclama “lunga vita alla resistenza, ma è già morta e dovrebbe essere uccisa ovunque ricompaia!”

Ma non lasciamoci ingannare. La macchina ideologica legata all’Autorità Palestinese che rivendica l’accesso immediato alla “nuda realtà” opera proprio negando la propria ideologia. Si vantano di vedere il mondo liberi da paraocchi ideologici, affermando che la loro chiarezza richiede la creazione di un sistema politico autoritario che consideri la resistenza al colonialismo come una “farsa” e la cooperazione con il colonizzatore come un imperativo “sacro”. Questa posizione realista-pragmatica conduce apparentemente i palestinesi verso una sorta di negazione – un’auto-cancellazione simbolica, politica e materiale, ma mascherando astutamente questa cancellazione attraverso pretese di rappresentanza politica e di creazione di uno Stato.

Nel frattempo, la classe dominante, nella sua brama di continuità e controllo, perpetua un “realismo politico” che opportunamente trascura i propri pregiudizi di classe e sociali. Una ristretta élite che ha profitti tra i colonizzati. Lo scopo ultimo di questo pragmatismo è creare una realtà in cui la nozione stessa di resistenza si perde negli annali di una realtà compromessa. Ma non è altro che una retorica sofisticata che giustifica la sicurezza e l’alleanza economica con un regime coloniale di coloni che sostituisce i colonizzati con i colonizzatori. 

Il risultato è un continuum nella politica palestinese con diverse disposizioni nei confronti della resistenza. Si potrebbero immaginare figure come Mahmoud Abbas e Mansour Abbas da un lato dello spettro, e formazioni politiche come la Jihad islamica e Hamas dall’altro, con quasi nessuna forza politica seria nel mezzo. 

In questo particolare frangente storico, le forze politiche che ancora si aggrappano e conducono un’agenda di resistenza non appartengono alla sinistra laica.

Ciò che tutto questo ci dice è che la principale linea di divisione tra le fazioni politiche palestinesi non riguarda lo scisma tra laicismo e islamismo, la lotta su programmi socio-economici divergenti, o i meriti di una particolare tattica al servizio della liberazione. Tutte queste sono questioni importanti di per sé, ma ciò che in realtà sta causando una spaccatura nell’arena politica palestinese è il divario tra una politica di pura sfida e una politica di accomodamento, cooperazione e collaborazione.

In definitiva, la ricerca donchisciottesca della sinistra occidentale di un’alternativa laica e progressista a Hamas trascura un fatto semplice: in questo particolare frangente storico, le forze politiche che ancora si aggrappano e conducono un’agenda di resistenza non appartengono alla sinistra laica.

Niente di tutto questo è casuale. Israele e i suoi alleati coltivano e modellano meticolosamente una leadership palestinese in linea con le loro ambizioni coloniali, arrestando, intimidendo e assassinando allo stesso tempo le alternative. 

Anche questo non è insolito per i movimenti anticoloniali, ed essere un membro dei colonizzati non ti conferisce automaticamente fedeltà allo sforzo anticoloniale. In Palestina, un secolo di colonialismo ha creato molte distorsioni nel corpo politico palestinese, trasformando l’OLP, un tempo rivoluzionaria, in un regime simile a Vichy che uccide la nazione in nome della nazione. Altri palestinesi hanno abbracciato nuove affinità e identità, inclusa l’identificazione con Israele (nella misura in cui è possibile identificarsi con un’entità la cui caratteristica principale è il suprematismo ebraico). La storia ci ha insegnato che ci sono casi in cui le persone combattono anche per la loro servitù, e non è necessario guardare oltre figure come Joseph Haddad e Mosab Hassan Yousef per capire cosa significa. 

Tuttavia, c’è una lotta più profonda in gioco: i palestinesi lottano da tempo non solo per il riconoscimento della loro situazione, ma soprattutto perché il mondo riconosca l’imperativo di resistere. Questa necessità di resistere e il diritto a tale resistenza diventano ancora più critici in un contesto globale in cui la narrativa della resistenza palestinese è manipolata – usata cinicamente per giustificare e legittimare l’assalto secolare di Israele all’esistenza e all’azione palestinese. È uno scenario perverso in cui l’atto di resistenza, essenziale per la sopravvivenza e la possibilità di giustizia, viene trasformato in una giustificazione per l’oppressione che cerca di superare. Qui Hamas è un facile spaventapasseri. È un gruppo politico islamista che punta su una politica di sfida e promuove un’agenda sociale che cerca di ricostituire il soggetto palestinese. I critici della resistenza possono facilmente evidenziare i limiti della visione socioeconomica di Hamas o deridere la sua agenda “socialmente regressiva”. Ma non sono realmente interessati a indebolire l’agenda sociale di Hamas. In realtà, vogliono indebolire o prendere le distanze dalla forma di resistenza che Hamas ha scelto di perseguire. Molti dei critici di Hamas non offrono nulla nel loro sistema di alleanze, nelle loro forme di lotta, o anche nella loro produzione intellettuale che possa eguagliare il suo lavoro di accumulazione di potere nella Striscia di Gaza e l’apertura di un vaso di Pandora strategico che ha traboccato e deformato il regime coloniale, fornendo un momento storico che include tra le sue molte possibilità il potenziale per la liberazione palestinese.

La politica di “Muzawada”

“ Muzawada ” è un termine nel lessico politico arabo che potrebbe essere grossolanamente tradotto con “esaltazione politica”. Ha una lunga tradizione di utilizzo come strumento di denigrazione tra i rivali politici e, in pratica, la sua funzione principale è stata quella di diffamare e demoralizzare il proprio concorrente politico esponendone l’ipocrisia, i discorsi irrealistici o la loro incapacità di tradurre la retorica in azione. L’intellettuale marxista siriano Elias Murkus ha fornito l’esempio di come i baathisti siriani abbiano utilizzato la muzawada per indebolire Jamal Abdul Nasser negli anni ’60, sottolineando il divario tra la sua retorica e le sue azioni riguardo alla liberazione della Palestina. Ma Murkus nota che questo disprezzo non deriva tanto da una genuina preoccupazione per la liberazione palestinese quanto dal desiderio di erodere l’influenza carismatica di Nasser in Siria e in Libano.

In questo contesto, non sorprende che la Palestina emerga storicamente come il teatro principale di tali “rilanci” o “esagerazioni” politiche nel panorama politico arabo. Fondamentalmente, la muzawada non si limita alle giostre retoriche, anche se è così che veniva storicamente utilizzata. In Palestina, negli anni ’90, la muzawada si è evoluta da un’offerta retorica a una “offerta pratica”, dove le fazioni politiche hanno gareggiato tra loro attraverso la capacità di creare e attualizzare la resistenza.

Queste duplici manifestazioni – muzawada retorica e pratica – sono fondamentali per comprendere le rivalità politiche interne palestinesi. Durante la Seconda Intifada, l’emergere della figura degli “ istishhadi ” fu una di queste forme di potenziamento, poiché trascendeva il tradizionale “ fida’i”. Il fida’i era una figura di auto-sacrificio che avrebbe ingaggiato il nemico ma avrebbe potuto tornare alla sua base, mentre l’istishadi incarnava l’auto-sacrificio del combattente che non aveva intenzione di tornare alla base, ma uccide e viene ucciso, diventando così un martire.

L’emergere di questa nuova forza contro egemonica all’inizio del secolo, in gran parte su iniziativa di Hamas e della Jihad islamica, ha visto la riformulazione della resistenza attraverso la creazione di nuove modalità di opposizione e una nuova figura di sacrificio per la resistenza. 

Nella Seconda Intifada, “one-upping” significava superare il proprio rivale politico attraverso operazioni di resistenza attuate. Questa forma di competizione intra-competitiva vedeva il lavoro di resistenza come un mezzo per dirigere le rivendicazioni politiche interne verso l’esterno, verso il colonizzatore. Le fazioni palestinesi erano unificate nella direzione delle loro azioni politiche, ma gareggiavano anche per superare i loro rivali attraverso la realizzazione di diversi atti di resistenza. 

Tuttavia, l’attuale natura della disunione in Palestina non è una forma di offerta al rialzo simile alla Seconda Intifada e non si basa sull’idea di superare il proprio rivale interno. Si tratta piuttosto di una disunione che è emersa quando l’Autorità Palestinese ha elevato la cooperazione con Israele a “sacra” e ha visto la continuazione della resistenza come una farsa. Dall’altro lato di questa disunione, Hamas e la Jihad islamica sono emerse come le forze più proattive alla guida di forme organizzate di resistenza. La divisione assunse forme geografiche, ideologiche e politiche. 

In questa forma di rilancio, un lato dell’equazione politica ha utilizzato la risposta militaristica di Israele alla resistenza per affermare: “Vedi? Questo è quello che succede quando resisti!” Sospende la ricerca di una politica di sfida, e di fatto sostiene la paralisi politica, la stasi e l’accomodamento ad Israele a scapito della capacità a lungo termine dei palestinesi di resistere.

All’interno di questo telos sono emerse tre risposte palestinesi di sinistra. La prima è una sinistra che si sposa con l’Autorità Palestinese e con la classe compradora sulla base del “laicismo” e come risultato della sua debolezza organizzativa – ad esempio, il Partito Popolare Palestinese (ex Partito Comunista). Un’altra sinistra si schiera con le forze islamiche sul piano della resistenza condivisa all’anticolonialismo, ma prende le distanze sul piano dell’agenda sociale, come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP). Una terza sinistra si identifica nel mezzo tra Hamas e l’Autorità Palestinese nella speranza di essere vista come un’alternativa a entrambe, apparentemente sostenendo che “sono entrambe ugualmente cattive”, ma rimanendo incapace di organizzare un’alternativa sociale o politica, come il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina.

La resistenza al colonialismo non è di per sé un atto progressista che darà potere ai diseredati? E la collaborazione stessa non è una forza socialmente regressiva perché subordina i colonizzati?

La nozione di essere “socialmente regressivo” o “socialmente progressista” nell’attuale panorama politico della Palestina è, a dir poco, estremamente complessa. Come possiamo, ad esempio, conciliare i partiti di sinistra che sostengono forme di regressione sociale e di autoritarismo politico in Cisgiordania con l’attuale atteggiamento dei resti del Partito Comunista? Come possiamo definire la “regressione sociale” nel contesto di un colonialismo di coloni in avanzamento che cerca di cancellare un’intera società? La resistenza a quel colonialismo non è di per sé un atto progressista che darà potere ai diseredati? E la collaborazione stessa non è una forza socialmente regressiva perché subordina i colonizzati? Oppure, è più importante l’ideologia proclamata da chi resiste? 

Da dove cominciare ad articolare un’agenda socialmente progressista in situazioni concrete come quella della Cisgiordania, dove l’Autorità Palestinese utilizza un mix di pratiche autoritarie, insiste su forme di educazione nozionistica tradizionale, impiega strutture sociali tradizionali come famiglie e clan, e vede nella politica interna il nemico finale, creando le condizioni per una guerra civile e una divisione in corso mentre anche i palestinesi tentano di contrastare l’invasione e la cancellazione coloniale. Su un piano strettamente “occidentale”, non esiste una forza totalmente o pienamente progressista in Palestina, ma solo elementi o tendenze progressiste – anche all’interno di formazioni politiche che vengono liquidate come regressive.

Critica nascosta alla resistenza armata

In questi articoli successivi, incontriamo una sconcertante contorsione che cerca di minare il sostegno alla resistenza, in particolare alla resistenza armata. C’è un crescente riconoscimento tra molti in “Occidente” della necessità e dell’efficacia della resistenza, o almeno che dopo decenni di negligenza nello spiegare le sue fonti e necessità, si potrebbe iniziare il processo di confronto con la sua realtà. Ciò include interagire con esso senza renderla profana . Questo cambiamento nella sinistra occidentale non significa che abbia improvvisamente abbracciato l’islamismo, ma riconosce la natura della condizione in cui sono intrappolati i palestinesi: una feroce colonialismo dei coloni che rifiuta di parlare un linguaggio politico con coloro che rende abietti, che fa affidamento sulla violenza eccessiva e sulla impunità diplomatica e legale, che impiega un complesso sistema architetturale di forme di controllo tecnologico e indiretto. 

Ma, cosa ancora più preoccupante, la persistenza e l’evoluzione della resistenza armata sfidano alcune delle teorie operative, degli interessi e delle disposizioni politiche dell’intellighenzia palestinese, inclusa l’ansia di una vera rottura del regime coloniale che permetta di iniziare l’opera di decolonizzazione. 

Queste sono le teorie che persistono da decenni, utilizzando un punto di discussione ampiamente accettato secondo cui i palestinesi dovrebbero astenersi dalla resistenza armata per coltivare un’immagine favorevole in Occidente, e sulla scena globale più in generale. 

L’idea prevalente è che la resistenza armata sia fondamentalmente incompatibile con la conquista della simpatia per la causa palestinese. Feticizzano una particolare lettura della Prima Intifada come modello esemplare di una rivolta popolare largamente non violenta e diffusa, capace di ottenere il sostegno delle masse, della società civile e degli organismi legali internazionali, facendo così appello alla sensibilità liberale delle principali società occidentali. 

Naturalmente, una tale lettura nasconde anche l’assalto psichico e ideologico che i palestinesi hanno dovuto affrontare sulla scia della Seconda Intifada, che ha tentato di incidere nella coscienza palestinese l’idea che la resistenza è inutile, che la resistenza armata porterà solo caos e che i palestinesi non possono e non devono affrontare militarmente Israele a causa dell’asimmetria di potere. Tuttavia, proprio come l’Autorità Palestinese, un’alternativa provocatoria costruita attorno alla “resistenza popolare” o alla “resistenza popolare pacifica” è stata utilizzata solo come strumento ideologico e psichico per sostenere quella che Abu Mazen e l’Autorità Palestinese hanno chiamato “sacra cooperazione per la sicurezza”. Sono stati concepiti pochissimi tentativi di organizzare la resistenza popolare e, in molti casi, sono stati combattuti dall’Autorità Palestinese e dal suo sistema di sicurezza subendo gravi violenze sia a Gaza che in Cisgiordania.

L’idea che la sinistra occidentale sia improvvisamente diventata la sostenitrice di Hamas è profondamente falsa. Jodi Dean non ha celebrato Hamas, ma forse ha trovato qualcosa di esaltante nell’atto di sfida: la marcia per spezzare il regime coloniale che circonda Gaza. Si è allineata con quella parte della sinistra palestinese impegnata nella resistenza. La maggior parte dei palestinesi condivideva il sentimento di Dean quel particolare giorno, compresi molti che in seguito rimasero delusi o modificarono le loro opinioni, sia per considerazioni etiche sia a causa della campagna di bombardamenti a tappeto di Israele e della guerra genocida, che portò alcuni a concludere che “non è valsa la pena.”

Come ha detto Bassel Al-Araj, se la sinistra in Palestina vuole competere con gli islamisti, dovrebbe competere nella resistenza. 

Sì, ci sono molte voci che detestano Hamas a Gaza, in Cisgiordania e in tutto il sistema politico palestinese, per una miriade di ragioni. Tra loro ci sono molti della “sinistra” palestinese che usano le loro differenze ideologiche e la divisione “islamista-laica” come copertura per il loro rifiuto totale della “resistenza”. Come ha detto Bassel Al-Araj, se la sinistra in Palestina vuole competere con gli islamisti, dovrebbe competere nella resistenza. Muzawada pratica.

Hamas, in fin dei conti, è l’articolazione contemporanea di una lunga storia di resistenza che riunisce al suo interno i contadini della Palestina pre-Nakba, i rivoluzionari palestinesi in esilio durante i primi anni dell’OLP e gli islamisti che presero l’iniziativa su larga scala negli anni ’80 e oltre. 

Molti tra la sinistra laica sono impalliditi, rifiutando la resistenza di Hamas non per la convinzione del suo inevitabile fallimento, ma piuttosto per una profonda ansia riguardo al suo potenziale successo. 

Questa non è semplicemente un’opposizione etica all’uso della violenza; è il timore che gli islamisti possano effettivamente rivelarsi più efficaci della loro posizione politica, ora in gran parte malinconica e smobilitata. Nel frattempo, alcune fazioni all’interno dell’élite palestinese guardano a Israele come a un faro di modernità, e sono guidate da una profonda paura della loro stessa società percepita come “regressiva” – un’indicazione significativa delle loro disposizioni ideologiche, intrappolate nel richiamo dell’Altro e terrorizzate dal potenziale di emancipazione delle masse palestinesi.

Avere differenze politiche e ideologiche con Hamas e disaccordi tattici, compresi problemi etici riguardo ai suoi obiettivi o alle sue capacità belliche, è una cosa. Ma un’altra è minare il livello minimo di comprensione del motivo per cui i palestinesi, in tutte le loro formazioni ideologiche e articolazioni storiche, vedono la resistenza in tutte le sue forme armate e disarmate come una necessità. In effetti, è a dir poco sfacciato, soprattutto in un ambiente che licenzia i professori per aver espresso qualsiasi emozione o simbolismo di sostegno alla resistenza palestinese. Il mondo può infatti riconoscere la necessità della resistenza e gli sforzi degli individui per combattere e rivendicare ciò che hanno perso. Fare ciò va oltre il concetto di vittimismo al quale molti liberali in Palestina e alcuni all’interno della sinistra vogliono che limitiamo la nostra lotta – una forma di soggettività palestinese che suscita solo pietà. 

La resistenza è pre-politica

Anche in assenza di movimenti armati formali o di rigide formazioni ideologiche, la Cisgiordania ha assistito all’emergere di piccoli gruppi informali: circoli di fiducia, raccolte di amici e unità armate su piccola scala che trascendevano i confini ideologici . Ciò significa che qualsiasi analisi deve partire da realtà tangibili. Proiettare schemi idealizzati e rigidi sui gruppi politici non solo è inutile, ma è intellettualmente pigro e profondamente ignorante del fatto che questa generazione continuerà a resistere

La resistenza è pre-politica. Esiste organicamente tra questa generazione di palestinesi che continuano a essere cancellati dalla loro terra e continuano a perdere i loro amici e i loro cari. Sono quelle forze che riescono bene a organizzare quella resistenza latente e finiscono per diventare una forza da non sottovalutare nella società palestinese. La resistenza è una necessità e, anche nella sua militarizzazione, nasce da realtà materiali tangibili, piuttosto che da sole scelte ideologiche

Il timore prevalente, come sempre, è che sotto la maschera di significative differenze ideologiche (che anch’io sostengo), la nostra critica alla resistenza diventi un tentativo di estinguere la sua stessa possibilità.

Hamas rappresenta solo uno dei tanti progetti politici e tentativi storici di sfondare il Muro di Ferro imposto da Israele. Potrebbe fallire o avere successo, ma non ha fatto nulla che altre forze socialmente progressiste in Palestina non abbiano tentato. Ancora più importante, Hamas a Gaza non rappresenta semplicemente un’influenza esterna o un’importazione; è intrinsecamente intrecciato nel tessuto sociale più ampio e, per lo meno, merita di più che essere liquidato sommariamente sulla base semplicistica di essere “regressivo” rispetto a “progressista”. 

Hamas non rientra in nessuna parte nella politica palestinese. È un’entità politica energica che ha astutamente imparato dagli errori del suo predecessore, l’OLP, sia nella guerra che nei negoziati. Ha investito meticolosamente le sue risorse intellettuali, politiche e militari nella comprensione di Israele e del suo centro di gravità psichico. Che ci piaccia o no, Hamas è ora la forza principale che guida la lotta palestinese.  La sinistra deve affrontare questo fatto fondamentale. Non si può fondare la solidarietà con la Palestina su una politica che respinge, trascura o esclude Hamas. Questa posizione non riesce a cogliere le complessità e le contraddizioni inerenti alla lotta palestinese. Così facendo, la sinistra trascura la linea di demarcazione tra collaborazione e resistenza, a suo rischio e pericolo.


Abdaljawad Omar è dottorando e docente part-time presso il Dipartimento di filosofia e studi culturali dell’Università di Birzeit.

3 pensieri riguardo “La questione palestinese oggi e la crisi della sinistra occidentale – presentazione dell’articolo di Abdaljawad Omar “la questione di Hamas e la sinistra”

  1. Un articolo che dimostra il fondamentale distacco dell’autore dal metodo materialista:
    1) “la relazione della produzione del valore e del colonialismo degli occidentali che ha determinato il movimento di una classe sociale e della sua rappresentazione politica all’interno del moto determinato della storia.” No, non si tratta di colonialismo, ma di imperialismo a tutti gli effetti, non è in atto la mobilitazione della classe in quanto non se ne ravvisano le forme (scioperi, cortei, soviet, blocchi) sull’ultimo limes c’è un bell’articolo che spiega come spesso la narrazione degli intellettuali si sostituisce alla realtà fattuale. Questo è il caso.
    2) “il carattere “regressivo” di Hamas è di fatto contrapposto alla modernità che il colonialismo di Israele ha realizzato nell’area Medio Orientale” (e citazione del manifesto che precede). No, Hamas non è retrogrado perché pre-capitalista. Al contrario è invece un prodotto propriamente capitalista, un prodotto dell’imperialismo. Non stiamo a metà dell’800 quando il capitalismo si diffondeva, siamo nel 2024 quando il capitalismo domina ormai ovunque incontrastato, tutte le forze politiche e militari in campo sono espressione del mdp capitalista e dei diversi centri di interesse che in esso prendono forma. Hamas è una forza non retrograda ma reazionaria: ossia nell’arco politico borghese incarna l’estrema destra anti proletaria, contro le donne e i diversi, radicalmente religiosa e oscurantista. Una forza antiproletaria in quanto borghese, e in più oscurantista e reazionaria, espressione di interessi finanziari e imperialisti di settori della borghesia palestinese e non.
    3) “il proletariato israeliano che di fatto vive sulla pelle dei palestinesi” no, è la borghesia israeliana e palestinese che vivono sulla pelle del proletariato palestinese ultra sfruttato e distribuiscono le briciole al proletariato israeliano facendone un “aristocrazia operaia” al fine di impedire la saldatura dei due spezzoni della classe.
    4) “nella resistenza armata vive un moto necessario “progressivo” indipendentemente dal quadro materiale delle sue possibilità” ancora qui, nel pezzo precedente la citazione, si prendono due epoche storiche profondamente differenti per appaiarle: la lotta della borghesia europea dell’800 fu contro l’aristocrazia, in questo fu progressiva. La guerra in Palestina è combattuta da due fazioni borghesi sulla pelle del proletariato, inoltre il capitalismo è alla fine del suo terzo ciclo di accumulazione, la guerra diventa perciò un passaggio verso la guerra mondiale, il non capire questo porta l’autore a sostituire la sua narrazione fantastica alla realtà oggettiva dei fatti che si svolgono sotto i nostri occhi.
    5) “La lotta per la liberazione della Palestina oggi è guidata dal Movimento di resistenza islamica – Hamas. Hamas è sostenuto da tutta la sinistra organizzata palestinese.” Qui si coglie il punto, pur in maniera inconsapevole: Hamas è sostenuta da tutto l’arco politico della sinistra borghese palestinese (e non solo) questo ne attesta il suo carattere inequivocabilmente borghese e anti-proletario, o forse l’Autore era tra quelli che facevano i caroselli in piazza quando la sinistra borghese italiana vinse le elezioni con Prodi?
    6) quelli che criticano Hamas “Così facendo, si schierano contro la rivoluzione palestinese” Rivoluzione? Dove sono i soviet, il dualismo di potete, il proletariato in armi??? Qui veramente si prendon lucciole per lanterne e l’ABC della lotta di classe se ne va gambe all’aria.
    7) ma poi quando mai il riferimento dei rivoluzionari è stata la sinistra occidentale (borghese)??

    Insomma uno scritto lontano anni luce dal metodo che pretende di rappresentare.

    1. Il povero Lotus elenca 7 punti di critica che esplicitano due cose.
      La prima, che è causale per la seconda, è che il suo “classismo” si caratterizza fondamentalmente razzista e eurocentrico (ossia occidentalista), cosa che lo conferma essere in scia a formazioni politiche che si rifanno alla sinistra storica (del movimento operaio) quali Lotta Comunista tanto per fare un esempio.
      La seconda è il meccanicismo soggettivista, per cui la storia è “dialettica” ma ripresenta necessità indistinte sempre uguali a prescindere dal tempo e dallo spazio, soprattutto fuoriuscita dalla bolla europea.
      Ma diamo alcuni spunti.
      La teoria del valore di Marx spiega quali sono i presupposti per l’accumulazione del valore. Uno di questi, fondamentale, è il sovrappiù di materie prime, macchinari ecc. ecc. Viene da sè, siccome il movimento dell’accumulazione è un movimento storico che si rappresenta, per leggi impersonali, come un certo sviluppo dei rapporti degli uomini con i mezzi della produzione e la natura, verrebbe da chiedersi se il 1492 (quali causalità lo determinarono e quali effetti produsse) potrebbe essere richiamato come elemento decisivo del vantaggio delle società europee nell’accumulare risorse e materie prime. Cosa che determinó i processi successivi: lo sviluppo della moderna manifattura e del “moderno proletariato” delle nazioni europee.
      In tutto questo non c’è alcun soggetto di classe rivoluzionario. Ogni nazione Europea, partita da quel condiviso vantaggio colonialista, ha poi dovuto affrontare una rivoluzione del modo di produzione a iniziare con quelli della campagna e la stessa relazione di scambio necessaria tra città e campagna. Ognuna a seconda delle diverse condizioni di partenza. In alcuni casi il processo rivoluzionario si fece strada nonostante la sconfitta della stessa rivoluzione. Un processo storico che doveva ribaltare per sviluppare la produttività e la produzione del valore i termini di scambio città e campagna e l’architettura sociale che ne era conseguita dove era la città a produrre per la campagna. Ma ecco il mutato scenario quando la spinta a accumulare mette decisamente la campagna a servizio della città. Laddove le classi nobiliari non si misero al passo finirono al patibolo. Laddove viceversa accompagnarono e ricoprirono il ruolo di questo necessario mutamento sono rimaste per lungo pezzo al loro posto con le loro proprietà, titoli e possedimenti mantenuti. Per il ruolo che la campagna assume, perchè accumulare derrate era la prima forma in cui si materializzava la accumulazione, Marx spiega il perchè dell’abbaglio degli economisti francesi che ritenevano l’agricoltura la vera fonte del plusvalore. È il modo della produzione in movimento il soggetto della storia, le classi sociali gli elementi determinati dai rapporti dello scambio sociale che la produzione del valore impone. Di soggetti rivoluzionari che compiono la storia non vi è traccia a meno di non assegnare il premio alla sola borghesia europea come fa Lotus. A ben vedere se la borghesia fu rivoluzionaria perchè combattè la nobiltà (solo in Francia fu cosi “rivoluzionaria”?) l’eccezionalità della “storia americana”, non ha spiegazione e priva di motivi di causalità. Anche lì si impose di ribaltare, dopo aver accumulato enormi ricchezze attraverso un colonialismo di insediamento violento e la schiavitù, i rapporti di produzione in agricoltura e la relazione città campagna, che culminó con una guerra civile. Non per liberare gli schiavi e farne dei salariati, ma per sostituirli con i macchinari prodotti dalla manifattura, che si andava a popolare di lavoratori immigrati dall’europa, i quali si legarono conflittualmente alla produzione del valore da cui hanno storicamente tratto il salario di vantaggio sociale razzista. Uno sviluppo tanto più tumultuoso quanto più il colonialismo precedente fu di tipo “colonialismo di insediamento”. Un colonialismo di insediamento che peró, per la scarsità della popolazione, non poteva riproporre la mezzadria del basso medio evo e del rinascimento: la soluzione determinata fu la schiavitù. Guarda caso
      gli USA sono la massima potenza mondiale.
      Ora, scollegare l’800 e l’oggi da 500 anni di colonialismo non solo è da ignoranti in fatti della storia, in fatto di materialismo e determinismo, ma è anche da razzisti. E L’apologia del ruolo rivoluzionario svolto dalle classi borghesi europee per aver civilizzato i popoli barbari sul Manifesto del 1848 un abbaglio teorico e oltre modo fuori luogo e base ideologica dell’eurocentrismo della sinistra storica o del socialismo / comunismo europeo.

      L’imperialismo oggi ha come tratto essenziale la servitù di aree vaste del mondo e della maggioranza della popolazione a produttori di materie prime accumulate e concentrate per il consumo e scambio di valore nella metropoli imperialista, negando la possibilità a questa vastità del mondo di sviluppare i rapporti con i mezzi della produzione e la più generale fabbrica sociale in maniera indipendente, sottoposti a violenza, in sostanza costretti a dover “rincorrere la storia” per emulare l’occidente che ha tratto e trae vantaggio dalla rapina colonialista e imperialista capitalista. L’ignoranza verso il determinismo storico di Lotus è spiegabile perchè una certa ideologia di fatto è figlia dell’illuminismo e dell’idealismo – altro che materialismo – che trasferisce il “sapere aude” di kantiana memoria dal soggetto individuale a un soggetto di classe (borghese o proletario), secondo la quale esso debba agire facendo leva sull’intelletto e sulla ragione (la coscienza), in sostanza facendo uso del libero arbitrio.

      Anche Marx nelle pagine del Manifesto esprime concetti idealistici. Ma già nei primi anni ‘60 Marx scrisse circa la nullità politica della classe operaia inglese nonostante le sue organizzazioni di classe di massa, che viveva all’ombra della rapina coloniale. Così come dovette verificare (e lo scrisse) che la classe operaia americana all’indomani della guerra civile era razzista. E verificó anche che essa era razzista nei confronti degli irlandesi, dunque per ragioni materiali dove non poteva essere altrimenti dato il processo della storia che aveva determinato concretamente le classi sociali (ruoli e funzioni) dalle necessità di un soggetto impersonale.
      E oggi nei confronti dei popoli colorati del Sud del Mondo in quanto “classe organizzata” o individui a difesa dei suoi interessi immediati? Sotto sotto, gratta gratta via il “classismo” di Lotus e troveremo l’islamofobia, dove tutto sommato la modernità delle “gloriose” rivoluzioni europee dell’800 non solo sono meglio ma quasi quasi da difendere restando fermi nel proprio indifferentismo. Sarà un caso che la storia del movimento operaio abbia fatto proprio un termine razzista che il colonialismo francese usava verso i Nord Africani categorizzati come popoli incivili nella metà dell’800 – Krumiri – per disprezzare quei lavoratori che i processi di industrializzazione e urbanizzazione trascinavano attraverso l’immigrazione intra europea nella concorrenza con i lavoratori autoctoni? No non è un caso.

      Per il resto, affermare che in Palestina sia in corso una guerra tra due borghesie nazionali (imperialiste) – perchè è questo che il povero Lotus sostiene – affermarlo è possibile solo da parte di chi ha sviluppato il “classismo proletario ciucciando dalla mammella coloniale”.
      Vai per la tua strada Lotus, ossia nel baratro dell’occidente e dell’implosione di un modo di produzione che non puó più garantirti la tua posizione di privilegio.

      P.S.: domanda a un operaio israeliano, magari iscritto al sindacato, che percepisce un salario 20 volte superiore di un lavoratore palestinese (fino a quando ai palestinesi era concesso lavorare) che cosa pensa di questo suo privilegio garantito da un regime di apartheid e di colonialismo di insediamento. Poi vediamo se campa oppure no sulla pelle dei palestinesi.

    2. Il povero Lotus si domanda: “dove sono i soviet, il dualismo di potere?” Prima di tutto dovresti studiare cosa furono i soviet nel 1905, diversi da quelli del febbraio 1917 e da quelli dopo aprile e luglio 1917, ancora diversi successivamente allo scioglimento della assemblea costituente, sia in sostanza sociale, politica, sia in forma. Il dualismo di potere dov’è? È nei confronti dello stato dell’apartheid di Israele e della sua intera architettura sociale, economica e militare che tu rivendichi intoccabile in quanto occidentale

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