Alika Ogorchukwu è stato vittima del razzismo due volte. La prima volta, che ha segnato la fine della su vita per mano di un operaio di 32 anni, Filippo Ferlazzo, il 29 luglio a Civitanova Marche. La seconda volta dalla campagna politica e sociale che nega il carattere razzista dell’omicidio e da quella ancora peggiore dell’anti-razzismo di unità nazionale, che difende gli immigrati e quelli di colore, che chiede giustizia democratica ed inclusione indicando ai neri di invocarla in ginocchio al cospetto della società capitalista del padrone bianco.

Qui non stiamo troppo a discutere sul fatto in sé e su coloro che negano l’esistenza di una società altamente razzista, trovando ogni qual volta una giustificazione all’omicidio di un nero da parte di un bianco o da parte di un poliziotto. Di esempi ce ne sono a iosa, capitano quotidianamente e non solo negli Stati Uniti d’America, in cui si tenta di giustificare la violenza dell’uomo bianco (lavoratori inclusi) o delle sue istituzioni nei confronti del nero.
La differenza che intercorre tra questi e l’antirazzismo di unità nazionale è solo relativa circa l’oggetto della nuova forma schiavitù e su come porre rimedi coercitivi alle contraddizioni che essa determina. Si infatti, la schiavitù non è mai scomparsa, anzi tutto il contrario. Dal 1619 – tanto per citare una data simbolo, quella in cui la prima nave carica di schiavi africani sbarcò a Jamestown in Virginia, dando avvio così alla fondazione della nazione nord americana mettendo al servizio in catene gli uomini nelle piantagioni di cotone, il suo commercio e la fornitura di materie prime per la manifattura britannica e mondiale – ad oggi la tratta degli schiavi, cambiando forma, si è estesa alla scala globale di massa. Non più attraverso le navi galere, bensì attraverso lo spossessamento delle terre dell’Africa, America Latina e dell’Asia che ha messo in atto un gigantesco movimento di popoli senza terra, spogliati delle proprie condizioni di vita e rapinando quelle risorse di cui l’Occidente ha bisogno e che da cinquecento anni rapina con la violenza. E’ una nuova tratta degli schiavi che si rende illegale attraverso dispositivi militari ai confini, campi di reclusione e confinamento e che al tempo stesso trova il suo complemento nelle ONG umanitarie – finanziate non si sa come (?) – che soccorre i profughi in mare, consegnandoli però nelle reti delle legislazioni anti immigrati delle democratiche nazioni europee, quindi alle necessità del profitto che intende usarli come forza lavoro sotto un regime di nuova schiavitù.
Lo spossessamento storico delle terre e delle materie prime, incluso della merce umana, ha determinato un “diritto di rapina”, ossia della proprietà privata per servire le necessità dell’accumulazione capitalistica, generando un tratto ed una relazione antropologica per cui il dominatore capitalista bianco è legittimato a farlo in virtù della propria superiorità. Una relazione che si è consolidata nei secoli e nel turbinio della accumulazione capitalistica mondiale che ha determinato anche nel lavoratore bianco quel sentimento per cui egli meriti di più del lavoratore nero, privilegiato appunto delle briciole della rapina storica elargite ai lavoratori occidentali, europei ed italiani. Paradossalmente il lavoratore bianco, in confronto del democratico capitalistico – cui la forza lavoro immigrata è necessaria – è maggiormente suscettibile di agire con violenza nei confronti di quello colorato, quando di quelle briciole ne rimangono poco o quasi nulla. Vive nel contesto animato e determinato dalla concorrenza sul mercato delle braccia e della forza lavoro, mentre in questi anni la crisi dell’accumulazione capitalistica costringe di attaccare le condizioni anche dei cosiddetti bianchi rendendo più esplosiva questo storica contraddizione.
In questi giorni abbiamo assistito al volgare confronto tra chi nega che l’atto di omicidio contro Alika avesse una origine razzista ed i sostenitori dell’anti-razzismo di unità nazionale. Su una cosa entrambi sono concordi: dobbiamo integrare gli immigrati buoni, ossia quelli che lavorano sodo alle condizioni che il mercato determina, mantenendo costantemente nel tempo una massa in sovrappiù di esclusi dal mercato, in perenne attesa di una futura regolarizzazione che quando viene realizzata (da ultima quella del 2020) si rivela un propria “sataneria”. Essi, i cosiddetti immigrati senza documenti, illegali, clandestini o quel che si voglia, riempiono quel serbatoio di mano d’opera in sovrappiù che costantemente faccia da pressione al ribasso sul costo del lavoro e sulle condizioni di vita proletarie, di colore immigrate e dei “bianchi”, in costante e perenne concorrenza tra di loro. D’altronde il processo dell’accumulazione è un sistema anarchico che non può mettere freno alcuno al moto d’onda dell’immigrazione che esso stesso determina.
E’ questo meccanismo storico che ha consolidato in cinque secoli il tratto antropologico nell’uomo capitalistico europeo ed occidentale che il colorato debba stare al “suo posto”, al massimo a rivendicare in ginocchio un proprio diritto concesso dall’alto e nel rispetto delle supreme regole.
Ed ha anche consolidato nel bianco la paura nei confronti del “nero”, che da quell’inginocchiamento possa sollevarsi e spezzare la catena che lo costringe a servire il profitto del capitalista di ogni colore (bianco occidentale ed europeo, nero o cinese che sia). In fatti nel dopo omicidio abbiamo udito levarsi dalla pancia sociale di destra il lamento che anche i “neri uccidono”, come accadde ad una giovane ragazza delle Marche vittima di un immigrato di colore nel 2018, che anche “le vite dei bianchi contano”. Di fronte ad un nero, un immigrato, un indiano, un pakistano, un bengalese, un musulmano o un colorato ispanico, qui in Italia ed in Europa come negli Stati Uniti d’America scatta automaticamente il tratto antropologico che il rapporto di proprietà sui popoli colorati ha determinato: l’immigrato è un “sospetto”.
Il poliziotto che lo ferma ha sempre pronta l’arma in pugno ed il nero deve essere più che docile a sottomesso per evitare che una o più pallottole possano colpirlo a morte. Il nero e l’immigrato non hanno una faccia ed un viso, è una maschera che incute una paura antropologica, perché la sua lotta storica porta con sé la necessità di spezzare quella proprietà dei mezzi di produzione, tra cui quella sulla forza lavoro dello schiavo, che originano il mondo dell’accumulazione capitalistica.
Così anche un famoso giocatore del Milan – Tiemoué Bakayoko – fermato in mezzo al traffico ha dovuto subire lunghissimi minuti di ispezione poliziesca con una pistola puntata al fianco ed una al collo, perché l’uomo di colore e l’immigrato prima di tutto è un soggetto potenzialmente pericoloso per la “proprietà” del valore e delle merci capitalistiche. Non è in queste situazioni che quotidianamente un nero rimane ammazzato dalla polizia americana e molta gente che nella supremazia del “bianco” capitalista vive giustifica l’atto? Perché il fermato “non ha collaborato con l’ufficiale di polizia” che gli intimava l’ordine “di scendere dal veicolo e di mettersi in ginocchio ammanettato”, perché ha provato come una lepre a sfuggire dai cani da caccia? Non è in queste situazioni, che nelle strade delle città d’Italia e di Roma quando un immigrato o un ambulante del Bangladesh viene aggredito nessuno interviene? Forse quell’ambulante ha provato a truffare il cittadino, forse ha provato a borseggiarlo? Forse, forse, forse…
Diciamola tutta, l’immigrato ridotto in schiavitù, messo ai margini e perfino escluso dal mercato del lavoro a nero ed extra legale, in attesa di essere incluso forse in futuro all’interno del rapporto razzista sul mercato del lavoro, per campare delinque e le carceri Italiane ne sono piene. E chi invoca sicurezza e pene contro questi crimini, non lo fa contro il crimine in sé, bensì per riprodurre il meccanismo che poi costringe o alla sottomissione alla schiavitù o alla necessità della delinquenza.
La “sicurezza” che si invoca contro gli immigrati, infatti, ha già una risposta da parte degli Stati, che è funzionale a rideterminare la barbarie razzista che colpisce gli sfruttati dominati lì ed immigrati qui. Si armano i confini e si affondano – o lasciano affondare – le navi dei profughi chiamati “clandestini”. Ma quelle braccia che sbarcano ai confini con mezzi di fortuna servono alle aziende italiane per produrre a basso costo quelle merci la cui produzione deve sostenere una concorrenza sul mercato mondiale che si fa sempre più agguerrita. Non vi è alcuno lavoratore immigrato attualmente “regolare” e con un contratto di lavoro, che non sia passato attraverso il girone infernale realizzato dalle leggi razziste che regolano l’immigrazione, declinando così la nuova forma giuridica della schiavitù (dove il permesso di soggiorno è vincolato al lavoro con contratto, ed il contratto di lavoro legale ad un permesso di soggiorno): la legge Turco Napolitano, la Bossi Fini, i vari decreti sicurezza di Minniti e Salvini. Che non abbiano dovuto sperimentare il terrore della reclusione nei CPR e lunghi anni di lavoro nero sottopagato, privo di tutele e con orari di lavoro massacranti. Lo possiamo constatare nelle raccolte stagionali nelle aziende agricole italiane dove vige il caporalato schiavista, la moderna piantagione schiavista, non più sotto la forma della merce cotone, bensì pomodoro. Le continue intimidazioni mafiose l’aggressione e l’omicidio che il bracciante immigrato è costretto a subire per prevenire e reprimere la sua ribellione contro la moderna schiavitù. Così come lo si può constatare nell’industria della logistica, dove si tenta di punire in questi mesi attraverso la Magistratura e le Procure democratiche dello Stato i lavoratori per essersi rifiutati di rimanere inginocchiati, organizzarsi in sindacato e lottare per la difesa delle proprie condizioni di lavoro.
Di fronte ad un clima sociale, permeato dalla crisi delle materie prime ed energetiche, dove si prefigura all’orizzonte la recessione economica generale, dove si muore di sete e di caldo sul posto di lavoro nei campi e in fabbrica, e dove la penuria da parte dell’Occidente di quelle materie prime che riavviano l’accumulazione ed il profitto rafforza un corso bellicista, la campagna contro gli immigrati e la violenza connessa – dello stato e sociale – non potrà che rafforzarsi. A questa canea sociale e politica si affianca quella contro i “poveri” tutti, nei confronti dei “percettori del reddito di cittadinanza”, che sicuramente non verrà abolito, bensì ridotto e concesso a più rigide condizioni e secondo una gerarchia razziale. Mentre il rapporto di nuova schiavitù giuridica – ossia il riconoscimento di un diritto di cittadinanza parziale, a tempo e sempre ed immediatamente revocabile – si fa più serrato e violento nei confronti degli immigrati, si riducono gli stessi margini per cui gli “autoctoni” possano beneficiare del proprio privilegio basato sulla gerarchia razzista all’interno della produzione generale del valore. Ed ecco che qui la pancia profonda del proletario senza riserve italiano, del piccolo commerciante e bottegaio, messi alle strette dalla crisi generale dell’accumulazione rappresenta una contraddizione per quelle necessità del profitto, per cui la forza lavoro immigrata è indispensabile, dunque quella contraddizione deve essere governata in modo tale dal limitarne gli eccessi. Questo è l’obiettivo e la necessità cui risponde quanto definisco come “anti-razzismo di unità nazionale” ed il motivo per il quale esso si distingue dal razzismo vero e proprio solo per motivi di dettaglio.
Di fronte all’omicidio di Anika, la comunità dei Nigeriani e delle Nigeriane tutte merita solidarietà, essa viene chiamata in ginocchio dall’anti razzismo di unità nazionale, rivendicando per loro un diritto concesso dall’alto per i “meritevoli”, gli “utili”, gli “indispensabili” . E’ l’antirazzismo della “inclusione” e della “accoglienza”, secondo le regole imposte che riflettono le necessità del profitto del capitalismo europeo ed italiano di poter disporre di forza lavoro senza diritti e a bassissimo costo. Se la tratta degli schiavi venne abolita nel 1807 dalla Gran Bretagna, il commercio della merce umana venduta come schiavo continuò a lungo per soddisfare la produzione del cotone e la manifattura. Oggi questo servizio all’economia ed al profitto è anche svolto da quelle ONG no-profit che aiutano gli sbarchi dei cosiddetti clandestini, consegnandoli poi alla mercé della schiavitù che li attende.
Nei giorni scorsi li abbiamo ascoltati pronunciarsi circa l’omicidio di Alika secondo le compatibilità e le necessità dell’economia. Hanno dichiarato, in quanto “italiani”, di volersi costituire parte civile nel processo per l’assassinio di Alika, rivendicare la più dura pena prevista dal codice penale contro il disgraziato operaio, che in preda ad una “follia” razzista ha ucciso l’immigrato Nigeriano. Dietro all’arcipelago dell’associazionismo anti-razzista italiano si muovono attori al di sopra del mite singolo volontario pacifista. A Civitanova Marche si sono mobilitate forze sociali e politiche che rappresentano gli interessi economici di cui le nuove forme della schiavitù sono necessarie. Esse sono delle vere potenti lobby politiche e finanziarie di non poco conto: dalla Comunità di Sant’Egidio che ha le mani in pasta e nel sangue di tantissimi conflitti in Africa e che dirige piani diplomatici secondo gli interessi imperialisti di ENI ed Enel; ad Amnesty International – che dietro la difesa dei diritti umani di facciata – pilota gli interessi transnazionali del profitto. L’enfasi che queste organizzazioni hanno dato al caso di Civitanova Marche è pari al silenzio omertoso circa lo spettro generale della condizione della vita e delle necessità di una lotta organizzata degli immigrati e delle immigrate. Non si vedono quando un bracciante finisce ucciso e i loro fratelli e sorelle di colore provano a lottare.
Ieri, 7 agosto 2022, un piccolo corteo meticcio composto forse da duecento persone ha sfilato nel quartiere di Torpignattara, un quartiere altrettanto meticcio della semi-periferia urbana di Roma. Un quartiere dove la contraddizione tra lavoratore bianco ed il lavoratore di colore è palpabile e che potrebbe esplodere nell’incedere di una crisi economica e sociale generale e di vaste dimensioni, rafforzando la violenza razzista e quella stessa catena che affligge il proletario senza riserve italiano. Nell’esprimere piena solidarietà alla comunità delle e dei Nigeriani e contro il razzismo, questo piccolo corteo meticcio non ha inteso inginocchiarsi invocando la giustizia dello Stato, pene severe per l’omicidio di Alika e lasciar continuare la barbarie della moderna schiavitù e del razzismo che lo Stato e l’antirazzismo di unità nazionale difendono.
Questo avviene dopo mesi che un settore della comunità del Bangladesh ha avuto difficoltà a reagire contro una serie di misure repressive, di intimidazioni politiche da parte del PD che amministra il quartiere e governa la città e di segnali di violenza razzista in strada (non da ultima quella di pochi giorni fa ai danni di un lavoratore ambulante immigrato dal Bangladesh nei pressi del Colosseo). Mesi in cui la necessaria reazione al razzismo non ha avuto il coraggio di manifestarsi attraverso le vie del quartiere. Ci è voluto, purtroppo, Alika ammazzato dal razzismo e la strumentalizzazione del suo martirio ad infondere coraggio.

Certo, si dirà, cosa sono poche centinaia contro un sistema generale di oppressione?
Dopotutto, l’America proletaria multietnica e meticcia, gravida di conflittualità insorgente e di una polarizzante violenza sociale, non è poi così lontana!
Note: Marcinelle e Lampedusa
Una opinione su "Alika ucciso dal razzismo e dall’”anti-razzismo di unità nazionale”"